Original text from Civiltà Cattolica |
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Andreas
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- Thursday, December 4 2003, 7:55:24 (EST) from 217.255.180.148 - pD9FFB494.dip.t-dialin.net Network - Windows 2000 - Internet Explorer Website: Website title: |
Shlama all, Here's the full original text from the Jesuite magazin "Civiltà Cattolica" on the situation of Christians in Islamic countries. Best Andreas ------------------------------- http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2003/3680/Articolo%20De%20Rosa.html I CRISTIANI NEI PAESI ISLAMICI Come vivono i cristiani nei Paesi a maggioranza islamica? È opportuno porsi oggi questo interrogativo, poiché si parla molto dei musulmani immigrati nei Paesi europei di tradizione cristiana, ma raramente si considera la situazione in cui vivono i cristiani nei Paesi a maggioranza islamica. Scomparsa del cristianesimo dai territori conquistati dall'islàm Si deve rilevare anzitutto un fatto in apparenza assai curioso: in tutti i Paesi dell'Africa del Nord (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco), prima dell'invasione musulmana (conquista dell'Egitto nel 640-642 d. C., della Tripolitania, della Tunisia e dell'Algeria nei secoli VII-VIII), nonostante l'invasione dei vandali, c'erano fiorenti comunità cristiane, che avevano dato alla Chiesa universale grandi personalità, come Tertulliano, san Cipriano, vescovo di Cartagine, morto martire nel 258, sant'Agostino, vescovo di Ippona e san Fulgenzio, vescovo di Ruspe. Dopo la conquista araba, il cristianesimo fu assorbito a tal punto dall'islàm che oggi esso è presente con un significativo numero di fedeli soltanto in Egitto con i copti ortodossi e con altre piccole minoranze cristiane, che rappresentano in tutto il 7-10% della popolazione egiziana. Lo stesso si deve dire del Medio Oriente (Libano, Siria, Palestina, Giordania, Mesopotamia) nel quale c'erano fiorenti terre cristiane prima dell'invasione islamica e in cui oggi sono presenti solamente piccole comunità cristiane, a eccezione del Libano, dove i cristiani costituiscono una significativa parte della popolazione. Per quanto riguarda l'attuale Turchia, essa era stata nei primi secoli cristiani la terra in cui il cristianesimo aveva dato i suoi frutti migliori nel campo sia della liturgia e della teologia, sia della vita monastica. L' invasione dei turchi selgiuchidi e la conquista di Costantinopoli da parte di Mehmet II (1453) condussero alla costituzione dell'impero ottomano e alla pratica distruzione del cristianesimo nella penisola anatolica. Così oggi in Turchia i cristiani si aggirano intorno ai 100.000, tra i quali un piccolo numero di ortodossi, che vivono attorno al Phanar, sede del Patriarca ecumenico di Costantinopoli, il quale ha il primato di onore sul mondo ortodosso e col quale sono in comunione ecclesiastica otto Patriarcati e molte Chiese autocefale in Oriente e in Occidente, con circa 180 milioni di fedeli. In conclusione, possiamo storicamente constatare che in tutti i luoghi in cui si è imposto l'islàm con la sua azione militare, che per la sua rapidità e la sua estensione ha pochi esempi nella storia, il cristianesimo, che vi era straordinariamente fiorente e radicato da secoli, è praticamente scomparso oppure si è ridotto a piccole isole in uno sterminato mare islamico. Come ciò sia potuto accadere non è facile spiegarlo. Rileviamo anzitutto che molto spesso i nuovi conquistatori musulmani sono stati accolti favorevolmente dalle popolazioni cristiane che mal sopportavano i dominatori bizantini e l'esosità del loro sistema fiscale. D'altra parte, l' impero bizantino, per le guerre continue che doveva sostenere per arginare l 'avanzata verso il Sud dei popoli del Nord (longobardi) e degli slavi, per le tensioni religiose (lotta iconoclasta e rottura con la Chiesa di Roma) e per i problemi sociali che lo agitarono e lo indebolirono, non fu in grado di opporsi all'avanzata degli eserciti islamici, i quali, pochi anni dopo la morte di Muhâmmad (632), conquistarono la Siria (636), la Persia (636 e 641), Gerusalemme (638), l'Egitto (640-642) e l'Africa del Nord, e si spinsero in Oriente, conquistando Bukhâra e Samarcanda nel 709 e 711, e in Occidente, attraversando lo stretto di Gibilterra (711), conquistando gran parte della penisola iberica e spingendosi fino a Narbona (720). Fermò l' avanzata islamica in Europa soltanto la sconfitta di Poitiers (732) ad opera di Carlo Martello(1). In realtà, la riduzione del cristianesimo a piccola minoranza non fu dovuta a forme di persecuzione religiosa violenta, ma alla condizione in cui i cristiani, nell'organizzazione dello Stato islamico, erano costretti a vivere. Certo, non mancarono nel mondo musulmano persecuzioni contro i cristiani, ma furono eccezioni. «Le persecuzioni più decise e consistenti avvennero verso la metà del IX secolo sotto al-Mutawakkil e, soprattutto, più tardi in Egitto, all'inizio dell'XI secolo, sotto Al-Hâkim bi-Amr Allâh. Sotto i mamelucchi bahriti (1293-1354) la persecuzione si fa sistematica: gli storici musulmani segnalarono decine di chiese distrutte e di conversioni forzate. L'intolleranza divenne allora un esercizio pressoché continuo, come hanno dimostrato le ricerche più recenti. [...] vi sono state frequentemente, direi persino costantemente, pressioni - e pressioni molto concrete - ieri come ai nostri giorni»(2). Si deve però ricordare che sotto la dinastia dei califfi abbâsidi - la quale regnò dal 749 al 1258 d. C. ed ebbe per capitale Baghdad, fondata da al-Mansur, secondo califfo della dinastia - i cristiani nelle regioni conquistate dall'islàm ebbero un'importanza capitale sia nel campo della cultura, sia nel settore dell'amministrazione dello Stato. In realtà, quando gli arabi musulmani conquistarono Paesi come la Siria e l'Egitto, restarono meravigliati dinanzi alla cultura dei loro popoli in campo filosofico e scientifico e dinanzi alla magnificenza delle chiese, dei monasteri e delle costruzioni pubbliche. Volendo fare proprie tali ricchezze culturali, si servirono dei cristiani per far tradurre in arabo le opere di Aristotele e dei commentatori aristotelici, come Alessandro di Afrodisia; di Platone e dei neoplatonici, come Porfirio; di Ippocrate e di Galeno; di Euclide e dei trattati di matematica, di trigonometria e di astronomia. Poiché tra il VI e l'VIII secolo molte di tali opere erano state tradotte in siriaco, i califfi abbâsidi organizzarono gruppi di traduttori, formati da cristiani siriaci, per la traduzione in arabo di tali opere. In campo amministrativo, nei primi secoli dell'islàm, i cristiani occuparono posti importanti, anche se per lo più non direttivi. Molto ricercata era l' opera dei medici cristiani, chiamati spesso a dirigere gli ospedali. Eppure, ciononostante, la condizione dei cristiani all'interno della società musulmana era tale da condurli lentamente alla scomparsa o da ridurli a piccole minoranze. Perché? Il volto guerriero dell'islàm: il «jihad» Lo Stato costituito da Muhâmmad era totalmente teocratico: in esso cioè tutto era subordinato ad Allah e al Corano, il «Libro» da lui rivelato o, meglio, «fatto scendere» sul suo Inviato e Profeta, Muhâmmad. Perciò la legge dello Stato musulmano dovrebbe essere necessariamente la legge coranica, la sharî'a. Secondo il diritto musulmano, il mondo è diviso in tre parti: dâr al-harb (casa della guerra), dâr al-islam (casa dell'islàm) e dâr al-'ahd (casa del patto), cioè i Paesi con i quali è stato stipulato un patto. Questa è costituita dai Paesi nei quali vige la legge coranica e che sono soggetti a Governi musulmani; il resto è terra degli infedeli, contro i quali i musulmani, almeno in teoria, si trovano in stato di guerra, che durerà finché tutto il mondo sarà assoggettato all'islàm; ci sono poi i Paesi del patto. Quanto ai Paesi appartenenti alla «casa della guerra», la legge canonica islamica non riconosce altre relazioni con essi se non quelle proprie della «guerra santa» (jihâd), che significa «sforzo» nella via di Allah e che ha due significati, i quali sono ugualmente essenziali e che non devono essere dissociati, quasi che l'uno possa sussistere senza l'altro. Nel primo significato, il jihâd indica lo «sforzo» che il musulmano deve compiere per essere fedele ai precetti del Corano e in tal modo migliorare la propria «sottomissione» (islàm) ad Allah; nel secondo, indica lo «sforzo» che il musulmano deve compiere per «combattere sulla via di Allah», cioè per lottare contro gli infedeli e diffondere l'islàm in tutto il mondo. Il jihad è un precetto della massima importanza, tanto che talvolta viene annoverato tra i precetti fondamentali - come sesto «pilastro» - dell'islàm. L'obbedienza al precetto della «guerra santa» spiega il fatto che quella dell'islàm sia una storia di guerre senza fine per la conquista dei territori degli infedeli: subito dopo la morte di Muhâmmad (632), sotto la guida dei quattro califfi «ben guidati» (râshidûn), Abû Bakr, 'Umar (Omar), 'Uthmân e 'Alî, eserciti di beduini arabi, mal equipaggiati, ma votati alla causa, riuscirono a sconfiggere in numerose battaglie gli eserciti bizantini e persiani, assai superiori di numero, ma scarsamente motivati, apatici e talvolta simpatizzanti con gli invasori, conquistando con incredibile rapidità grandi Paesi come la Siria, la Persia e l'Egitto, e soprattutto Gerusalemme, chiamata Al-Quds da 'Umar, che se ne impadronì nel 638. Erano passati appena sei anni dalla morte di Muhâmmad e dai disordini a cui diede luogo la sua successione a capo dell'umma islamica. Per i musulmani le vittorie sui bizantini e sui persiani erano il segno del favore di Allah: si ripeteva il «miracolo di Badr», dove Muhâmmad con 300 uomini aveva sbaragliato una truppa di 1.000 meccani, riportandone abbondante bottino (Corano, 1. 3, 13). Così, le guerre d'invasione dell' islàm continuarono, portando i musulmani a Ovest fin nel cuore della Francia, a Nord-Est fino a Samarcanda e a Sud-Est fino all'India e all' odierna Indonesia. Ma tutta la storia islamica fu dominata dall'idea della conquista delle terre cristiane dell'Europa occidentale e dell'impero romano d'Oriente, la cui capitale era Costantinopoli. Così, durante lunghi secoli, l'islàm e la cristianità si affrontarono in terribili battaglie, che da un lato condussero alla conquista di Costantinopoli (1453), della Bulgaria, della Grecia e, dall'altro, alla sconfitta dell'impero ottomano nella battaglia navale di Lepanto (1571). Ma lo spirito di conquista dell'islàm dopo Lepanto non cessò. L'avanzata islamica in Europa fu definitivamente fermata soltanto nel 1683, quando Vienna fu liberata dall'assedio ottomano dalle armate cristiane al comando di Giovanni III Sobieski, re di Polonia. Intanto nei secoli precedenti si era conclusa con la presa di Granada (1492) la reconquista cristiana della Spagna, mentre negli anni 1061-91 i normanni avevano liberato la Sicilia dagli arabi che l'avevano conquistata nei secoli IX-X. In realtà, per quasi mille anni, a partire dalla conquista della Spagna, iniziata nel 711 da Tariq - il capo arabo da cui deriva il nome di Gibilterra (Gebel-el Târiq: Monte Tariq) e dalla conquista della Sicilia fino al secondo assedio di Vienna (1683), l'Europa è stata sotto la costante minaccia dell'islàm, che per ben due volte ne ha messo in serio pericolo la sopravvivenza. Così, in tutta la sua storia, l'islàm ha mostrato un volto guerriero e uno spirito conquistatore a gloria di Allah. La cosa non deve stupire. È vero che la «spada dell'islàm» non sempre è stata mossa e guidata da spirito religioso, cioè dal desiderio di estendere l'islàm e di procurare nuovi muslimûn, vale a dire «sottomessi» ad Allah, il Dio vero, Unico (wâhid) e Uno in sé (ahad). Tuttavia lo spirito di conquista «religiosa» compiuta con il jihâd è stato sempre vivo nell'islàm, in obbedienza al Corano che ripetutamente esorta i «credenti» a «combattere sulla via di Dio» («per la causa di Dio») contro gli «idolatri», che devono essere posti nell' alternativa: convertirsi all'islàm o essere uccisi; ma anche contro gli «infedeli», cioè contro «la gente del Libro» (Ahl al-Kitab) (cristiani, ebrei e sabei), i quali devono essere sottoposti a un regime speciale. In particolare, il Corano esorta i credenti a sacrificare la vita presente per quella futura, perché i combattenti che cadono nella guerra santa contro gli idolatri e gli infedeli sono «martiri» (s. 3, 140) e perciò Allah cancella tutte le loro cattive azioni e concede ad essi come ricompensa il paradiso, dove godranno tutte le delizie, materiali e spirituali. Quanto alla «gente del Libro», i musulmani devono «combatterla finché i suoi membri non paghino il tributo, a uno a uno, umiliati» (s. 9, 29). In realtà, «la guerra santa è un dovere religioso e deve intraprendersi con la retta intenzione (niyya) di propagare l'islàm»(3). Il regime della «dhimma» Secondo il diritto musulmano, i cristiani, gli ebrei e i seguaci di altre religioni assimilate al cristianesimo e all'ebraismo (i «sabei») che abitano in uno Stato musulmano appartengono a un ordine sociale inferiore, nonostante la loro eventuale appartenenza alla stessa razza, alla stessa lingua e alla stessa discendenza. La legge islamica non conosce i concetti di nazione e di cittadinanza, ma solamente l'umma, l'unica comunità islamica, per cui il musulmano, in quanto fa parte dell'umma, può vivere in qualsiasi Paese islamico come nella sua patria: egli è soggetto alle stesse leggi, trova le stesse usanze e gode della stessa considerazione. Invece gli appartenenti alla «gente del Libro» sono soggetti alla dhimma, che è una specie di patto bilaterale, consistente nel fatto che lo Stato islamico autorizza la «gente del Libro» a risiedere sul proprio territorio, ne tollera la religione, le garantisce la «protezione» delle persone e dei beni e la difesa contro i nemici esterni. Così la «gente del Libro» (Ahl al-Kitab) diviene «gente protetta» (Ahl al-dhimma). In cambio di tale «protezione», la «gente del Libro» si impegna a pagare allo Stato islamico un'imposta (óizya), che grava soltanto sugli uomini abili, di condizione libera, escludendo donne, bambini, infermi e vecchi, e a pagare un tributo, detto haraó, sulle terre possedute. Per quanto riguarda la libertà di culto, ai dhimmî sono proibite soltanto le manifestazioni esterne di culto, come il suono delle campane, le processioni con croci, i funerali solenni, la vendita pubblica di oggetti di culto o di altri articoli proibiti per i musulmani. Un musulmano che sposa una cristiana o un'ebrea dovrà lasciarla libera nell'esercizio della sua religione e anche nell'uso dei cibi permessi dalla sua religione, anche se proibiti a un musulmano, come la carne di maiale e il vino. I dhimmî possono conservare o riparare le chiese o sinagoghe che già posseggono; ma, se non c 'è stato un patto che permetta ad essi il possesso di terre proprie, non possono costruire nuovi luoghi di culto, perché per fare questo dovrebbero occupare una terra musulmana, che non può essere ceduta a nessuno, essendo divenuta, con la conquista musulmana, terra «sacra» ad Allah. Nella sura 9, 29 il Corano afferma che la «gente del Libro», oltre ad essere costretta a pagare le due tasse di cui si è detto sopra, va sottoposta ad alcune restrizioni, come il vestire in modo speciale, la proibizione di portare armi e di montare a cavallo. Inoltre i dhimmî non possono far parte dell'esercito, essere funzionari dello Stato, essere testimoni in giudizi tra i musulmani, prendere in moglie le figlie di questi, essere tutori di minori musulmani o tenere schiavi musulmani. Non possono ereditare da musulmani, né questi da essi; sono però permessi i legati. Lo scioglimento della dhimma sopravviene, anzitutto, con la conversione della «gente del Libro» all'islàm; ma i musulmani, specialmente nei primi secoli, non hanno visto con favore tali conversioni, perché significavano una grave perdita per l'erario, che era tanto più florido quanto più numerosi erano i dhimmî, che pagavano la tassa personale e l'imposta fondiaria. Lo scioglimento della dhimma poteva avvenire, inoltre, per il mancato adempimento del «patto», nel caso cioè che i dhimmî prendessero le armi contro i musulmani; nel caso che rifiutassero di stare sottomessi o di pagare i tributi; nel caso che rapissero una musulmana, bestemmiassero o oltraggiassero in qualche maniera il profeta Muhâmmad e la religione islamica; nel caso, infine, che facessero allontanare un musulmano dall' islàm, cercando di convertirlo alla propria religione. Secondo la gravità di ciascun caso, la pena poteva essere la confisca dei beni, la riduzione in schiavitù o la pena di morte; salvo che chi avesse commesso tali delitti non si convertisse all'islàm. In tal caso, ogni pena era abolita. Conseguenza della «dhimma»: l'«erosione» del cristianesimo È evidente che la condizione di dhimmî, prolungandosi nei secoli, ha portato lentamente, ma inesorabilmente, alla quasi sparizione del cristianesimo nelle terre musulmane: la condizione di inferiorità civile, che impediva ai cristiani di accedere alle cariche pubbliche, e la condizione d'inferiorità religiosa, che li chiudeva in una vita e una pratica religiosa asfittica e senza nessuna possibilità di sviluppo, poneva i cristiani o nella necessità di emigrare o, più frequentemente, nella tentazione di passare all'islàm. Tanto più che un cristiano non poteva sposare una donna musulmana se non si convertiva all'islàm, anche perché i suoi figli dovevano essere educati nell 'islamismo. C'era inoltre per un cristiano passato all'islàm la possibilità di divorziare con estrema facilità, mentre il cristianesimo proibiva il divorzio. D'altra parte, i cristiani che si trovavano nei territori musulmani erano fortemente divisi tra loro - e spesso anche nemici - poiché appartenevano a Chiese diverse per confessione (Chiese calcedonesi e non-calcedonesi) e per riti (siro-orientale, antiocheno, maronita, copto-alessandrino, armeno, bizantino): cosicché ogni mutuo aiuto era praticamente quasi impossibile. Il regime della dhimma è durato per oltre un millennio, sia pure non sempre e dappertutto nella forma dura datagli dalle «condizioni di 'Umar»(4), secondo le quali non soltanto i cristiani non hanno diritto a costruire nuove chiese e a restaurare quelle esistenti, anche se cadono in rovina (e, se hanno il permesso di costruire dalla benignità del governatore musulmano, le chiese non devono essere di grandi dimensioni: l'edificio dev'essere più modesto di tutti gli edifici religiosi dei dintorni); ma le chiese più grandi e più belle devono essere trasformate in moschee. Tale trasformazione faceva sì che le chiese-moschee non potessero più essere rese alla comunità cristiana, perché un luogo divenuto moschea non può essere destinato ad altro uso. La conseguenza del regime della dhimma è stata l'«erosione» delle comunità cristiane e il passaggio di molti cristiani all'islàm per motivi economici, sociali e politici: per trovare un lavoro migliore, per godere di maggiore considerazione sociale, per partecipare alla vita amministrativa, politica e militare, e non vivere in una condizione di perpetua discriminazione. Negli ultimi secoli, il sistema della dhimma ha subìto alcune attenuazioni, anche perché pure nei Paesi musulmani hanno preso piede la nozione di «cittadinanza» e quella di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato. «In pratica, tuttavia, anche dopo la diffusione di concetti politici occidentali, la concezione tradizionale resta latente, presente nel subconscio. La nozione moderna della cittadinanza, malgrado considerevoli sforzi di intellettuali di ogni orientamento, non entra che lentamente e a fatica nella maggior parte dei Paesi arabo-musulmani. Si ha l'impressione che, nell'orientamento di fondo (se non nella legge) di molti Stati musulmani, le categorie classiche di umma e di dhimma, della comunità dominante e delle altre comunità più o meno dominate, siano sempre presenti. Il cristiano, che lo voglia o no, è ricondotto suo malgrado al concetto di dhimmî, anche se il termine non ricorre più nel diritto attuale di buona parte dei Paesi a maggioranza islamica(5). Condizione attuale dei cristiani nel mondo islamico Qual è oggi la condizione dei cristiani nel mondo islamico e quali sono le prospettive per il futuro? Ricordiamo anzitutto che la presenza dei cristiani nel mondo musulmano non è uniforme. Nei Paesi del Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco) il cristianesimo è quasi del tutto scomparso: la massima parte dei cristiani ivi residenti sono di origine europea; soltanto pochissimi provengono dall'islàm. In Egitto, i copti(6) sono una minoranza rilevante. Negli altri Paesi del Vicino Oriente (Libano, Siria, Giordania, Palestina, Iraq) - includendo l'Egitto - i cristiani sono 6-7 milioni, cioè il 6,3% della popolazione. Per comprendere la condizione attuale di questi cristiani, bisogna rifarsi alla storia dei secoli XIX e XX. Nel secolo XIX, nell'Impero ottomano, in cui vigeva il sistema del millet, furono introdotte le tanzîmât («regolamentazioni»). Si trattava di riforme liberali, introdotte nel funzionamento dello Stato dal 1839 (data in cui il sultano Abd ül-Mejîd proclamò l'uguaglianza di tutti i sudditi davanti alla legge) al 1876 (data della promulgazione della prima Costituzione). Dalla seconda metà dell' Ottocento fino alla fine della prima guerra mondiale (con il dissolvimento dell'Impero ottomano) ci fu nel mondo arabo un movimento di «Risveglio» (Nahda), sotto l'influsso occidentale, nel campo della letteratura, della lingua e del pensiero. Molti intellettuali furono conquistati dalle idee liberali. D'altra parte, i cristiani strinsero forti legami con le potenze occidentali - in particolare con la Francia e la Gran Bretagna - che, dopo la dissoluzione dell'impero ottomano, ottennero il protettorato sui Paesi che facevano parte di esso. Questo fatto permise ai cristiani sia una maggiore libertà civile e religiosa, sia una crescita del loro livello culturale. Inoltre, nella prima metà del secolo XX, nacquero vari partiti politici d'intonazione nazionalista e socialista, e dunque laici, come il Ba 'th (Partito socialista della Risurrezione Araba) fondato alla fine degli Anni Trenta a Damasco dall'insegnante siriano Michel 'Aflaz, di religione greco-ortodossa, che nel 1953 si fuse col Partito Popolare Siriano, fondato nel 1932 dal libanese greco-ortodosso Antun Sa'âda. Infine, in vari Paesi islamici sorsero regimi politici ispirati ai princìpi liberali e laici dell' Occidente europeo. Questi fatti suscitarono nel mondo islamico una forte reazione, dovuta al timore che le idee laiche e i costumi «corrotti» del mondo occidentale, identificato con il cristianesimo, nuocessero alla purezza dell'islàm e costituissero un pericolo mortale per la sua stessa esistenza. Questa reazione era alimentata da un forte risentimento contro le potenze occidentali, che avevano osato imporre il loro dominio politico all'islàm, «la migliore nazione mai suscitata da Allah tra gli uomini» (Corano, s. 3, 110), e i loro costumi «depravati» «alla nazione (umma) che invita al bene, promuove la giustizia e impedisce l'iniquità» (ivi, s. 3, 104). Nacque così «l'islamismo radicale» che si fece interprete delle frustrazioni delle masse musulmane: Hasan al Bannâ, Sayyd Qutb, Abd al-Qâdir 'Uda in Egitto con i fratelli Musulmani; Abu l-A'lâ al-Mawdûdî in Pakistan e l' âyatollâh Khomeini in Iran ne sono i testimoni più significativi e i loro seguaci, da Dakar e Kuala Lumpur, si sono moltiplicati ammonendo il sovrano (come in Marocco), facendo trionfare un Fronte Islamico di Salvezza (come in Algeria): da esso è nato un gruppo assai più crudele e intransigente, il Groupe Islamique Armé (GIA), sviluppando un movimento di tendenza o di rinascita islamica (come in Tunisia) o insorgendo contro il potere costituito (come in Siria, ad Hamâ, nel 1982)(7). Rinascita dell'islamismo «fondamentalista» e «radicale» L'islamismo radicale, il quale propone che in ogni Stato islamico sia instaurata la sharî'a, sta prendendo piede in molti Paesi islamici, in cui sono presenti gruppi di cristiani. È evidente che l'instaurazione della sharî'a renderebbe assai difficile la vita ai cristiani e la loro stessa esistenza sarebbe in continuo pericolo. Di qui l'emigrazione massiccia dei cristiani dai Paesi islamici verso i Paesi occidentali: Europa, Stati Uniti, Canada e Australia. Indubbiamente tale fuga non è dovuta solamente all' affermarsi, in molti Paesi, del fondamentalismo islamico:ci sono anche motivi sociali, economici e politico-militari che hanno il loro peso; ma il fatto che la loro libertà religiosa possa essere - o sia già - limitata gravemente dall'imposizione della sharî'a rende onerosa la loro permanenza nei Paesi islamici. Quello che è certo, ad ogni modo, è che negli ultimi decenni «le stime degli arabi cristiani che sono emigrati - da Egitto, Iraq, Giordania, Siria, Libano, Palestina e Israele - si aggirano intorno ai tre milioni, cioè fra il 34,1 e 26,5 per cento del numero stimato di cristiani attualmente presenti nel Medio Oriente» (8). In proposito non bisogna sottovalutare fatti gravi avvenuti di recente a danno dei cristiani in alcuni Paesi a maggioranza islamica: così, in Algeria, il vescovo di Orano, P. Claverie (1996), sette trappisti di Tibehirini (1999), quattro Padri Bianchi (1994) e sei suore di diverse Congregazioni religiose sono stati barbaramente uccisi dai fondamentalisti islamici, anche se l'assassinio è stato condannato da numerosi responsabili musulmani. Nel Pakistan, che conta 3.800.000 cristiani su una popolazione per il 96% islamica di 156.000.000 di abitanti, il 28 ottobre 2001 alcuni islamici entrarono nella chiesa san Domenico a Bahawalpur e uccisero a fucilate 18 cristiani. Il 6 maggio 1998, il vescovo cattolico John Joseph si era tolto la vita per protestare contro la legge sulla bestemmia, che punisce con la morte chi è accusato di offendere Maometto anche solo «pronunciando parole, o con gesti e mediante allusioni, direttamente o indirettamente». Dicendo, per esempio, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, si offende Maometto, il quale afferma che Gesù non è Figlio di Dio, ma suo «servo». Perciò con tale legge la vita dei cristiani è in continuo pericolo di morte. In Nigeria - dove 13 Stati hanno introdotto la sharî'a come legge dello Stato -, parecchie migliaia di cristiani sono state vittime di incidenti(9). Stanno avvenendo fatti gravi nel Sud delle Filippine e nell'Indonesia, che con i suoi 212 milioni di abitanti è il Paese musulmano più popoloso del mondo, a danno dei cristiani di Giava, di Timor Est e delle Molucche. Ma la situazione più tragica - e purtroppo dimenticata dal mondo occidentale! - è quella del Sudan, dove il Nord è arabo e musulmano, e il Sud è nero e cristiano e, in parte, animista. Dai tempi del presidente G. M. Nimeiry c'è uno stato di guerra civile tra il Nord, che ha proclamato la sharî'a e intende imporla con feroce violenza a tutto il Paese, e il Sud che intende conservare e difendere la propria identità cristiana. Il Nord si serve di tutta la sua potenza militare - finanziata dalle esportazioni di petrolio in Occidente - per distruggere i villaggi cristiani, impedire l'arrivo di sussidi umanitari, uccidere il bestiame, fonte di sostentamento per molti sudanesi del Sud, fare razzie, in particolare di ragazze cristiane, che vengono portate al Nord, stuprate e vendute come schiave o concubine di anziani ricchi sudanesi. Secondo il Rapporto annuale 2001 di Amnesty International, «alla fine del 2000, la guerra civile, ripresa nel 1983, era costata la vita a quasi due milioni di persone ed era stata la causa dello sfollamento forzato di altri 4.500.000. Decine di migliaia di persone sono state spinte dal terrore a lasciare le proprie case nell'area del Nilo superiore, ricca di petrolio, in seguito a bombardamenti aerei, esecuzioni di massa e torture». Si deve infine ricordare un fatto che spesso si dimentica perché l'Arabia Saudita è la maggiore fornitrice di petrolio del mondo occidentale, e quest' ultimo ha quindi interesse a non guastare i suoi rapporti con quel Paese. In realtà, nell'Arabia Saudita, dove vige il wahhabismo(10), non solo non è possibile costruire una chiesa o anche un piccolissimo luogo di culto cristiano, ma è severamente proibito con pene durissime ogni atto di culto cristiano e anche ogni segno di fede cristiana. Così circa un milione di cristiani e cristiane, che lavorano in Arabia Saudita, sono privati, con la violenza, di ogni pratica e di ogni segno cristiano. Essi possono partecipare alla Messa o ad altre pratiche cristiane - e anche allora con grave pericolo di perdere il lavoro - soltanto nei locali delle imprese petrolifere estere. Eppure, l'Arabia Saudita spende miliardi di petrodollari, non a beneficio dei suoi cittadini poveri o dei musulmani poveri di altri Paesi musulmani, ma per costruire in Europa moschee e madrasa e finanziare gli imâm delle moschee in tutti i Paesi occidentali. Si può ricordare che la moschea romana di Monte Antenne, costruita su un suolo donato gratuitamente dal Governo italiano, è stata finanziata principalmente dall'Arabia Saudita ed è stata costruita per essere la moschea più grande d' Europa nel cuore stesso della cristianità. Ricordando questi fatti - del passato e del presente - abbiamo inteso sottolineare il valore che ha nella vita dei popoli la libertà religiosa e, quindi, la necessità che in ogni nazione essa sia assicurata a tutti i cittadini e a tutti i gruppi religiosi, quale che sia la loro consistenza numerica. In realtà, la libertà religiosa tocca la persona umana in ciò che essa ha di più intimo: perciò, la sua negazione e anche soltanto la sua limitazione ferisce profondamente le persone e le costringe o a vivere una vita di dolorose e umilianti discriminazioni o ad emigrare in altri Paesi. Vediamo perciò con grave preoccupazione che in taluni Stati a maggioranza musulmana si voglia imporre la sharî'a come legge dello Stato, in vigore per tutti i cittadini, anche non musulmani. Questo sarebbe non solo un'ingiusta oppressione delle coscienze, ma anche un grave errore politico, perché metterebbe uno Stato che così agisse fuori della comunità internazionale, la quale riconosce nella libertà - e nella libertà religiosa - uno dei suoi princìpi costitutivi. È proprio in base al principio della libertà religiosa che l'Italia intende stabilire un'Intesa con la comunità musulmana residente nel nostro Paese. Non è stato possibile attuarla poiché finora i vari gruppi musulmani presenti in Italia - per contrasti interni dovuti a molti fattori, tra i quali il legame con gli Stati di origine - non sono riusciti a costituire una rappresentanza unitaria, che possa trattare autorevolmente col Governo italiano e prendere impegni che obblighino tutti i musulmani residenti in Italia. D'altra parte ci sono problemi - in particolare quelli riguardanti il diritto di famiglia, la posizione della donna, il diritto ereditario - che creano difficoltà non piccole per un accordo che rispetti le leggi italiane. Il nostro auspicio è che si riesca a superare tali difficoltà, affinché i musulmani italiani siano accolti e rispettati al pari dei cittadini italiani e riescano a integrarsi nel nostro Paese, pur conservando e professando liberamente la loro religione, e non costituiscano - ciò che sarebbe un danno per tutti - dei «ghetti», non integrati nella comunità italiana. Giuseppe De Rosa S.I. 1 Si ritiene comunemente che la sconfitta di Poitiers abbia fermato l' avanzata islamica in Francia. In realtà, essa continuò: nel 735 gli arabi si impossessarono di Arles e di Avignone; dalla Provenza passarono nel Delfinato, giunsero fino a Lione, occuparono Valence e diedero alle fiamme le chiese nei dintorni di Vienne. Soltanto nel 759 Pipino il Breve riuscì a liberare Narbona, mettendo fine definitivamente alla conquista islamica della Francia, mentre la Spagna restava saldamente in mano agli arabi col nome di Ândalus e capitale Cordova, divenendo dapprima un emirato, ad opera dell'omâyyade 'Abd ar-Rahmân, nel 756, e poi nel 929 un califfato, che durò fino al 1031. 2 S. K. SAMIR, «Le comunità cristiane, soggetti attivi della società araba nel corso della storia», in A. PACINI (ed.), Comunità cristiane nell'islam arabo. Una sfida del futuro, Torino, Fondazione G. Agnelli, 1996, 80. Del p. Samir la nostra rivista ha pubblicato numerosi articoli. 3 F. M. PAREJA, Islamologia, Roma, Orbis Catholicus, 1951, 425. 4 Si tratta di «condizioni» contenute in un documento attribuito al califfo 'Umar, morto nel 644, ma che potrebbe essere stato redatto sotto il governo di 'Umar II (681-720). Esso limita enormemente i diritti dei dhimmî. Fra l' altro, vieta la conversione al cristianesimo e la punisce con la morte del musulmano che si è convertito e del cristiano che lo ha convertito: è «la punizione dell'apostasia» (hadd al-ridda). 5 Cfr S. K. SAMIR, «Le comunità cristiane...», cit., 85 s. Le limitazioni al regime della dhimma furono introdotte dapprima con le «capitolazioni», che erano trattati secondo i quali uno Stato musulmano concedeva a uno Stato cristiano il diritto di esercitare la propria giurisdizione sui propri sudditi cristiani che si trovavano all'interno dello Stato musulmano. La denominazione deriva dai capitula, in cui erano divisi i trattati di questo tipo con l'Impero ottomano. Di queste «capitolazioni» la prima - sulla quale poi si modellarono tutte le altre - fu stipulata tra il re di Francia, Francesco I, e il sultano ottomano Suleyman (Solimano) I, nel 1536. La seconda limitazione della dhimma si ebbe nell'impero ottomano con la costituzione del millet (comunità religiosa, nazione) secondo il quale ciascuna comunità religiosa aveva il diritto di regolarsi secondo leggi sociali e amministrative proprie. Ogni millet aveva un capo riconosciuto che rappresentava i propri correligionari di fronte al Governo ottomano. 6 Il termine «copto» deriva dal greco Aigyptos (Egitto) attraverso l'arabo Qubt o Qibt, e designa i cristiani indigeni dell'Egitto, la cui Chiesa, a partire dal V secolo, fu ritenuta monofisita, e perciò perseguitata dai bizantini: questo spiega il fatto che gli arabi - accolti con favore dalle popolazioni egiziane - conquistarono con facilità l'Egitto nel 641. Nei secoli XIX e XX la Chiesa copta assunse il nome di Chiesa copta «ortodossa». Recentemente (1973 e 1988) essa ha sottoscritto con la Chiesa cattolica un documento di fede cristologica. Il patriarca - che è oggi Shenuda III - risiede al Cairo ed è patriarca di Alessandria e di tutta l'Africa. Il numero dei copti ortodossi (c'è anche un piccolo numero - 150.000 - di copti cattolici) oscilla (secondo le statistiche) da un minimo di 3.200.000 a un massimo di 6.000.000 e di 8.000.000. Circa 400.000 copti vivono nella diaspora (Europa, USA, Canada, Australia); in Italia ci sono due diocesi copte (Milano e Torino-Roma). 7 M. BORRMANS, «Prefazione», in P. BRANCA, Voci dell'Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Genova, Marietti, 1991, XI. 8 B. SABELLA, «L'emigrazione degli arabi cristiani: dimensioni e cause dell' esodo», in A. PACINI (ed.), Comunità cristiane nell'islam arabo, cit., 141. 9 L'Agenzia Misna del 30 gennaio 2002 informa che, in occasione del «caso Safiya» la giovane donna condannata a morte per essere rimasta incinta fuori del matrimonio, i vescovi cattolici, in una lettera pastorale, hanno affermato: «Basta con questa pazzia! Dalla nascita della nuova democrazia in Nigeria, nel maggio 1999, è stata proprio la sharî'a a minacciare l'armonia e la stabilità del Paese. Si sono già verificati conflitti che si potevano evitare tra cristiani e musulmani, che hanno procurato gravi lutti e danni». 10 Il wahhabismo è un movimento di riforma dell'islàm, ispirato a un rigorismo estremo e volto a conservare l'islàm nella sua purezza originaria. Esso risale allo sceicco Muhâmmad Ibn 'Abd al-Wahhâb, il quale nell'Arabia, a partire dalla regione del Naód, diffuse il suo movimento riformista nel 1740. La riforma era incentrata «sull'affermazione dell'esclusività del culto che bisogna rivolgere a Dio e la conseguente lotta da condurre contro ogni forma di politeismo e di empia innovazione in fatto di religione. Proponeva inoltre l'applicazione della sharî'a islamica in ogni settore dell 'esistenza, progetto percorribile soltanto all'ombra di un potere politico in grado di realizzare tali scopi» ('Abd Allâh al-Sâlih al-'Uthaymin, Storia dell'Arabia Saudita, Palermo, Sellerio, 2001, 55). Infatti, lo sceicco al-Wahhâb trovò protettori nella famiglia Su'ud, che estese il suo potere a tutta l'Arabia, chiamata per tale motivo «Saudita». La dinastia saudita governa ancora l'Arabia e ritiene sua missione diffondere l'islàm in tutto il mondo, costruendo moschee e case di cultura (madrasa) e promovendo la da 'wa, cioè la «chiamata» di tutti gli uomini a convertirsi all'islàm, con forti impegni finanziari. Al wahhabismo si sono ispirati tutti i movimenti fondamentalisti e radicali, nati nell'islàm, in particolare i Fratelli musulmani (al-Ikhwân al-muslimun), sorti in Egitto nel 1928, e ai quali si deve, ad esempio, l'uccisione del presidente egiziano al-Sadât nel 1981. © La Civiltà Cattolica 2003 IV 160-173 quaderno 3680 --------------------- |
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